In principio fu Cesare Balbo. Se si rilegge la relazione che accompagnò la prima legge elettorale ereditata ai suoi albori dall’Italia unita, si ha l’impressione che adottando un sistema maggioritario sul modello inglese, con gli opportuni adattamenti alle abitudini e al carattere italico, si ritenesse di poter trasferire, come per incanto, la stabilità e la solidità del sistema britannico nel neonato Regno.
La storia, come è noto, ci racconta che le cose sono andate ben diversamente. Eppure già in quel primissimo atto parlamentare c’è qualcosa che avrebbe segnato la storia politica del Belpaese dalla nascita fino ai nostri giorni: l’illusione che attraverso l’adozione di un determinato sistema elettorale si sarebbe potuto di volta in volta risolvere problemi, rendere stabile l’instabile, indirizzare il corso degli eventi, sciogliere nodi altrimenti inestricabili.
In molti a esempio -tra questi Salvemini e Sturzo- ritennero che le difficoltà dell’Italia giolittiana si potessero risolvere passando dal maggioritario al proporzionale. Dopodiché, per una sorta di legge del contrappasso, uno dei maggiori storici delle istituzioni del secondo dopoguerra, Giuseppe Maranini, arrivò a imputare al proporzionale, adottato nel 1919, la responsabilità non già della morte del giolittismo, ma addirittura della nascita del fascismo. Ovviamente erano esagerate le speranze degli uni ed era quantomeno spropositata l’accusa dell’altro.
Per spingerci a periodi a noi più prossimi, al tempo dei referendum di Mario Segni è parso per una stagione che una svolta maggioritaria potesse guidare la rinascita del paese dopo il tramonto dei partiti che avevano segnato la prima fase della storia repubblicana nel segno del proporzionale e del proporzionalismo.
Ennesima illusione, dalla quale è derivato un nuovo sport nazionale: sparare sulla legge elettorale di volta in volta vigente salvo poi scoprire in quella successiva pecche ancora peggiori. Ne hanno fatto le spese il cosiddetto Mattarellum, poi la legge proporzionale con premio di maggioranza che addirittura si è guadagnata l’epiteto di Porcellum, e anche l’attuale sistema, nato nell’emergenza di un vuoto legislativo colmato da due sentenze della Corte Costituzionale pronunziate in tempi differenti e per questo non omogenee, sembra inscrivere la sua sorte nel medesimo solco.
È un fatto che con le regole vigenti non sia scaturito dalle urne un governo. E è un fatto altrettanto verificabile che con gli attuali rapporti di forza tra gli schieramenti, e con i paletti invalicabili dettati dalla Consulta, la designazione di una maggioranza chiara sia un risultato difficilmente conseguibile qualunque sistema elettorali si adotti. A poche ore dall’avvio delle consultazioni, si dovrebbe trarre giovamento da ciò che la storia ci ha insegnato.
Se non ci si intende rassegnare a un governo tra diversi, se si ritiene che le differenze programmatiche siano troppo profonde per dar vita a una maggioranza in grado di affrontare le difficoltà del nostro tempo, bisognerebbe evitare di usare la legge elettorale come comodo alibi sul quale scaricare tutta la responsabilità di un sistema instabile, e ancor più di illudersi che la sola modifica del sistema di voto sia sufficiente a tirarci fuori da questo pantano nella prospettiva di una nuova elezione ravvicinata.
Bisognerebbe avere la forza di riconoscere come necessaria una riforma più ampia che investa il parlamento e soprattutto la forma di governo. È quanto fu proposto dal governo Letta: diciotto mesi per intervenire su bicameralismo, forma di governo, e a valle, legge elettorale. A missione compiuta si sarebbe tornati alle urne: il centrosinistra sarebbe rimasto centrosinistra, il centrodestra sarebbe rimasto centrodestra, e forse il Movimento 5 stelle sarebbe rimasto sul terzo gradino del podio.
L’avvento di Renzi e del renzismo cambiò tutto e, tra l’altro, ripropose con l’imposizione dell’Italicum l’antica illusione per la quale una legge elettorale obbligatoriamente bipolare avrebbe potuto, a forma di governo invariata, modificare ortopedicamente il sistema e risolvere d’incanto ogni problema. Sappiamo com’è andata a finire.
È ora possibile riaprire il capitolo della Grande riforma? Non credo. Forse, però, è possibile non mandare in soffitta l’idea di ridurre il numero dei parlamentari in misura proporzionale fra Camera e Senato; di razionalizzare attraverso una commissione di conciliazione i tempi del sistema bicamerale e il funzionamento del procedimento legislativo; e infine, rimettere in campo allo stesso tempo l’elezione diretta del vertice dell’esecutivo (realizzabile tanto con il presidenzialismo tanto con il premierato) e una nuova correlata legge elettorale, non dimenticando ovviamente di attivare gli opportuni contrappesi a seconda del sistema prescelto.
È questa la sola strada per dare autentica stabilità all’Italia. Ce lo insegnano gli esempi di paesi assai più solidi, tanto dal punto di vista economico quanto sul versante istituzionale. Non si tratta della sola via possibile per uscire dall’impasse di questi giorni, ma se dovesse prevalere l’ipotesi di una fase transitoria in vista di un nuovo passaggio dalle urne con l’obiettivo di superare le difficoltà legate agli attuali equilibri politici, per favore non si pensi soltanto alla modifica della legge elettorale. Non servirebbe a niente, non cambierebbe niente.
Non si rinnovi l’antica illusione italica, che probabilmente non ha le responsabilità che alcuni storici le hanno attribuito, ma che certamente non ha contribuito a far diventare più forte e matura la nostra democrazia.
Tratto dall’Huffington Post.