Se lo si vuole fare con un po’ di oggettività, non è facile esprimere un giudizio univoco sul contratto di governo sottoscritto da Lega e Movimento 5 stelle. Non foss’altro che per la sua eterogeneità: i capitoli tematici presentano gradi molto diversi di approfondimento (si va da proposte articolate e puntuali a generiche enunciazioni di principio), e anche rispetto alla filosofia di fondo alcune contraddizioni interne appaiono piuttosto evidenti (come conciliare ad esempio l’approccio giustizialista al diritto penale con il tentativo di imprimere una svolta liberale nel rapporto tra cittadino e sistema fiscale?).
La sensazione è che la coabitazione programmatica tra i due contraenti sia stata fin qui impostata non tanto come compromesso tra proposte politiche differenti quanto su un piano di ripartizione delle sfere d’influenza, sminando alcuni dei nodi più spinosi grazie a un sottile velo di lessicale ambiguità.
Insomma, il contratto giallo-verde non è affare che possa essere liquidato con un tweet. Non lo si può accogliere acriticamente, né tuttavia sarebbe corretto criminalizzarlo (del resto, chiunque abbia assistito ai tavoli di lavoro per il patto di programma del governo Renzi sa che c’è ben poco di che sfottere Lega e M5s…). Nelle 57 pagine vi sono intenti discutibili ma anche indicazioni positive. Trattandosi di un nutrito e multiforme catalogo che difficilmente potrebbe essere realizzato nell’arco di una legislatura, molto dipenderà da cosa di sceglierà di fare e da come si deciderà di farlo.
Fra i pochi ambiti rispetto ai quali è possibile cogliere una linea univoca di fondo e, dunque, esprimere un giudizio più compiuto, vi è quello istituzionale: soprattutto se si mettono in relazione i comportamenti politici concreti posti in atto in quest’alba di collaborazione con quanto scritto nero su bianco nel programma di governo.
Inquadrando gli eventi di questi giorni in una prospettiva di medio-lungo periodo, non si può non partire ricordando come la storia della cosiddetta Seconda Repubblica sia stata a lungo caratterizzata dal tentativo di costruire un sostanziale governo di gabinetto, nel quale il premier avesse una posizione di preminenza nell’esecutivo e di fatto, diventasse il pivot del rapporto tra il governo e la sua maggioranza parlamentare, chiamati insieme a confrontarsi con un’opposizione che, dietro la guida di un capo, si candidasse alla successione.
Questa idea trasversale degli equilibri politico-istituzionali si è contrapposta alla concezione “classica”, vigente nella prima fase della storia repubblicana, della divisione dei poteri tra esecutivo e legislativo. Per affermarsi si è perlopiù affidata a espedienti (come l’indicazione del nome del premier sulla scheda elettorale) e, nel tempo, non è mai riuscita a conquistare una sua piena legittimità istituzionale disegnando, in una riforma della Carta, il “peso” dell’esecutivo (e del suo capo) e il “contrappeso” che risiede innanzi tutto nelle prerogative dell’opposizione e nei poteri del parlamento.
Dopo una serie di governi deboli, e dopo il tentativo della riforma del 2016 (bocciata dal referendum) di introdurre surrettiziamente un premierato senza cambiare in Costituzione la forma di governo, a me pare che su questo terreno con l’accordo Lega-M5s si cambi radicalmente direzione. Non solo perché non sembra essere quella del presidente del Consiglio la figura chiamata a assicurare forza e stabilità all’esecutivo (Di Maio dixit: “Il nostro premier è il programma”).
Ancor di più perché la stabilizzazione viene ricercata in una sorta di riedizione del governo di direttorio, preconizzato in sede di Assemblea Costituente da Vittorio Emanuele Orlando a corredo delle sue critiche sulla scarsa sfera di autonomia che la Carta del 1948 assegnava (e assegna tuttora) al potere esecutivo.
Va in tal senso la riduzione dello spazio di libertà del parlamentare insita nella proposta di introdurre un più o meno stringente vincolo di mandato e dunque, di riportare stabilmente l’eletto sotto il tacco del partito che lo ha candidato. E in questo stesso senso va, soprattutto, la previsione di una cabina di regia esterna al governo (posta dunque sotto l’egida dei partiti sottoscrittori del patto), incaricata di dirimere eventuali divergenze e, dato ancor più significativo, di assumere decisioni su questioni intervenute strada facendo e non regolate dal contratto originario. In questo schema, i partiti da troppo deboli si fanno decisamente forti. Il che in sé non sarebbe neppure un male, se i loro meccanismi di funzionamento fossero regolati e orientati da criteri democratici (caratteristica che invece viene guardata sempre di più come una persistance d’ancien régime).
Il programma Lega-M5s non identifica nel parlamento il contrappeso istituzionale di questa forma di stabilizzazione dell’esecutivo. Piuttosto, lo individua in forme assai spinte e avanzate di democrazia diretta.
L’idea di un referendum abrogativo senza quorum e, soprattutto, l’introduzione nell’ordinamento dell’istituto del referendum propositivo fanno immaginare un’Italia che assuma progressivamente le sembianze della Svizzera, con lo svuotamento delle istituzioni rappresentative e il corpo elettorale chiamato a consultazioni continue anche su questioni non dirimenti.
Può funzionare questo modello? Difficile dirlo senza lo spazio di un’analisi in profondità, ma certo i rischi insiti nell’instaurazione di una democrazia post-rappresentativa sono elevati. Non ci si può tuttavia limitare soltanto alla deprecatio di questa opzione. Né chi ritiene che non sia questa la via giusta per uscire dalle secche di un sistema rappresentativo ormai inefficiente può pensare di fermarsi a custodire uno status quo che ha mostrato tutti i suoi limiti. Tantomeno tentare qualche spurio correttivo di sistema passando obliquamente dalla riforma della legge elettorale (come ha provato a fare Renzi).
Con la situazione attuale bisogna fare i conti, e questa necessità chiama in causa tanto l’analisi politica quanto la visione istituzionale. I retroscena giornalistici ci riferiscono ad esempio di un Matteo Salvini convinto che l’antagonismo destra/sinistra sia ormai superato dal nuovo scontro tra popolo e élite. In questa lettura c’è del vero (e i dati dei flussi elettorali lo dimostrano), ma non per questo il clivage di fondo tra due diverse visioni del mondo -quella della destra e quella della sinistra- può ritenersi archiviato. Soprattutto, c’è da chiedersi se il nuovo confronto tra popolo e élite -che certamente esiste- debba condurre necessariamente a un modello di democrazia post-rappresentativa oppure, piuttosto, possa essere incanalato in forme di espressione democratica che rimangano nei binari della rappresentatività stabilendo al contempo un fortissimo vincolo con la sovranità popolare.
Il tema, insomma, non è la domanda. Il tema è la risposta da dare, e non è un caso che a fronte dei nuovi conflitti siano i sistemi di natura presidenziale e semi-presidenziale a reggere meglio. Di fronte alle fratture del nostro tempo non c’è una scelta obbligata tra la conservazione dell’esistente e il sostanziale smantellamento della democrazia rappresentativa. Un passo più avanti c’è la sfida del presidenzialismo, che disegni con chiarezza le prerogative del Capo dell’esecutivo e sancisca la sua investitura popolare, e con altrettanta chiarezza disegni i contrappesi al suo potere. Questa è la sfida. I prossimi mesi ci diranno se qualcuno avrà la forza di raccoglierla.
Tratto da HuffingtonPost Italia a firma di Gaetano Quagliariello.